Fare crescere la consapevolezza del rischio, dalle norme al cittadino
Questo articolo ha avuto tra i suoi spunti una delle convinzioni del sottoscritto: i ponti sono le uniche opere di ingegneria civile che uniscono invece che dividere.
Il sottoscritto ha sempre visto questo in un’accezione positiva, fino a quando, nell’epoca della globalizzazione, non è arrivato il Covid-19: nell’emergenza del propagarsi del virus, i ponti diventano elementi da distruggere come, durante la Seconda Guerra Mondiale, fecero i tedeschi in ritirata da Sud a Nord nel nostro Paese.
Con queste premesse nasce questo articolo.
Il “rischio zero” non esiste, questo è un concetto chiave da cui partire. I numeri (10-6 o 10-9) di cui hanno parlato prima il Provveditore Baratono, poi l’Ingegner Cardinale, sono noti agli ingegneri; più difficile è tradurre quei numeri in qualcosa di comprensibile alla società, nella quale gli ingegneri vivono e con la quale devono rapportarsi.
Leggendo i dati ISTAT 2011, in Italia risultano oltre 12 milioni di edifici residenziali. Immaginiamo che tutti siano stati costruiti con le moderne normative tecniche che individuano, appunto per questo tipo di edifici, una probabilità di collasso di 1 su 1 milione; ciò significa che 12 di essi (condomini da 100 appartamenti? Villette singole?) sono “legittimati” a crollare.
L’ingegnere ha ben calcolato la struttura secondo le norme tecniche emanate dallo Stato; dispiace, ma non è colpa di nessuno. Il concetto, seppure estremizzato, potrebbe risultare avulso (o indigesto) a cittadini e giudici.
Altro caso, ancora più estremo, è quello delle infrastrutture.
Quante “oggetti” abbiamo in Italia (ponti, sovrappassi, gallerie, ecc…) che possiamo far rientrare in questa categoria? 100mila, 1milione, 100milioni? La probabilità di collasso per queste opere diventa 1 su 1 miliardo, quindi nessuna di esse è “legittimata” a crollare.
Entrambi gli esempi sono paradossali, ma rappresentano un grande vuoto da colmare tra normativa tecnica e percezione sociale.
Proviamo a forzare ancora un po’ la mano su questo concetto: quanti cittadini hanno acquistato una casa costruita con recenti normative tecniche, magari facendo anche un mutuo ventennale? Quanti di questi sono consapevoli che in caso di terremoto “atteso”, cioè quello massimo per cui la loro nuova casa è calcolata, avranno dei danneggiamenti significativi tali per cui l’investimento di una vita, molto probabilmente, varrà zero e occorrerà trovare una nuova sistemazione? Quanti hanno stipulato assicurazioni contro questo rischio? Quante polizze assicurative sono pronte contro questo rischio?
Trovo che sia fondamentale discutere di questi temi soprattutto per due motivi:
- Il primo è che viviamo in uno “stato sociale” che spesso diventa “stato di diritto” o per le troppe emergenze da gestire o per l’abitudine dei suoi cittadini: deve intervenire lo Stato! Occorre un finanziamento pubblico! Ci deve pensare il Governo!
- Il secondo è che i dubbi fino adesso sollevati hanno avuto come presupposto che tutte le costruzioni fossero state progettate e costruite con recenti normative tecniche.
Proviamo quindi a sporcarci le mani, distogliamo per un momento gli occhi sognanti dal futuro “a norma” e atterriamo sommessamente nel nostro mondo, dove “uno su un miliardo” o “uno su un milione” cozza contro il patrimonio edilizio e le strutture e infrastrutture esistenti. Queste non conoscono i numeri con l’esponente negativo né il rigore tecnico-matematico.
L’approccio va ribaltato: la partenza non è ipotizzare una precisione normativa ma prendere atto di un grezzo stato di fatto che, anche se non a norma e talvolta grossolanamente, esiste, è in piedi, è utilizzato. I concetti di sicurezza e rischio diventano più aleatori e non possono prescindere dalle scelte del proprietario/fruitore oltre che da una serie di condizioni al contorno.
Nel pubblico conviviamo con questi concetti dal 2003, dopo l’emanazione della OPCM3274 e il conseguente obbligo di verifica di tutte le strutture strategiche o rilevanti. Da lì una serie di passaggi consequenziali: molti degli edifici verificati non rispettano i requisiti minimi delle recenti norme, non è possibile chiudere tutti i suddetti edifici e gli enti gestori non hanno abbastanza soldi per intervenire, lo Stato deve mettere in campo risorse ma non è possibile che ciò avvenga subito per tutti, è necessario fare delle scelte, occorre trovare un criterio di scelta.
Il concetto di Tempo d’Intervento e la consapevolezza sociale
Nasce quindi il concetto di Tempo d’Intervento: l’ente gestore/proprietario di diversi edifici si trova in mano una classifica tramite la quale decidere dove convogliare le risorse (già disponibili o da chiedere) e con quale urgenza.
Nel privato ci siamo arrivati da poco (2017) con il SismaBonus e la classificazione sismica degli edifici.
Lo “stato sociale” di cui parlavamo prima prende atto del patrimonio edilizio e elargisce dei contributi affinchè vi sia un miglioramento diffuso; l’entità del contributo parte da una presa di coscienza della sicurezza dell’edificio (ruolo del cittadino) e dalla volontà di raggiungere un certo livello di miglioramento (premialità).
Qui tornano ancora più stringenti le domande che ci siamo posti prima. Negli ultimi anni sono stati effettuati moltissimi miglioramenti di edifici scolastici al 60% a seguito dell’erogazione di contributi: quanti genitori/presidi/sindaci sono consapevoli di cosa significhi questo numero? Quanti sono in grado di tradurre questo in “consapevole rischio a norma di legge”?
Parimenti, nel privato, quanti cittadini fruitori dei bonus fiscali sono consapevoli di cosa significhi che la propria abitazione da G diventa D?
In tutto questo non si può non rilevare come lo Stato si sia mosso al meglio delle proprie possibilità e in maniera molte volte virtuosa. Parimenti non si può non rilevare il grande lavoro ancora da fare per quanto riguarda la consapevolezza sociale e, a cascata, la gestione giuridica di situazioni chiare per quanto riguarda la normativa tecnica ma non altrettanto per quanto riguarda il sentire comune (l’odissea della scuola di Ribolla, nel Grossetano, ne rappresenta un ottimo esempio).
Vanno bene dunque le intenzioni di modifica al DPR380, l’idea di creazione di un nuovo impianto normativo, l’eliminazione della dicotomia (ormai anacronistica) tra Legge 1086 del 1971 e Legge 64 del 1974, ecc… Ma ci vuole anche un atto di coraggio, da parte di tutti i soggetti decisori, nel prendere coscienza del livello di sicurezza del nostro patrimonio e nell’impegnarsi per farne prendere coscienza alla società. E l’atto di coraggio ci vuole anche nell’ammettere che le normative tecniche, per quanto possano essere perfette, risultano inadeguate o non applicabili per gli edifici esistenti.
Sposo quindi il passaggio degli autori che mi hanno preceduto:
“Appare prioritario di conseguenza modificare il quadro normativo attuale, figlio di un concepimento normativo risalente a circa mezzo secolo fa, caratterizzato da un approccio sostanzialmente prescrittivo, che limita la capacità di scelta consapevole del progettista, relegandolo al ruolo di esecutore…”.
Lo sposo e rilancio: se vogliamo andare verso questa strada i tecnici devono tornare a godere della fiducia dello Stato e le Normative Tecniche non devono essere “legge”, ma “codici” come nella maggior parte dei Paesi evoluti. Lo Stato deve indicare il livello minimo di sicurezza che ogni costruzione deve avere in funzione del proprio utilizzo, ma come raggiungere quel risultato lo deve poter decidere il professionista di concerto con il proprietario/fruitore del bene.
La “Vita nominale” e la gestione delle opere
Infine, un’ultima nota sulla gestione delle opere e sulla nostra capacità di previsione.
Trovo sbagliato il concetto di “Vita nominale” per come si è fatto strada negli ultimi anni e per come è stato tradotto nelle NTC2018, convenzionalmente definita come il numero di anni nel quale è previsto che l’opera, purché soggetta alla necessaria manutenzione, mantenga specifici livelli prestazionali. […]
Parametro convenzionale correlato alla durata dell’opera al quale viene fatto riferimento in sede progettuale per le verifiche dei fenomeni dipendenti dal tempo (a esempio: fatica, durabilità, ecc.), rispettivamente attraverso la scelta ed il dimensionamento dei particolari costruttivi, dei materiali e delle eventuali applicazioni di misure protettive per garantire il mantenimento dei livelli di affidabilità, funzionalità e durabilità richiesti.
La Vita nominale va benissimo per il calcolo delle azioni di progetto, ma con l’attuale impianto normativo non può essere considerata come un requisito di cui tenere conto per la durata dell’opera.
Si prendano per esempio le opere pubbliche.
A oggi il costo di un’opera (ponte, scuola, …) purtroppo non tiene conto della gestione dell’opera stessa e della sua necessaria manutenzione, ma si ferma alla fine della sua realizzazione. Con l’attuale situazione economica degli enti gestori, in quale maniera si potrà far fronte a tale spesa se non se ne tiene conto sin dall’inizio? Ci si troverà a intervenire sempre in emergenza.
Manca poi una discreta capacità di visione (fantasia?) per assecondare il concetto di vita nominale come è stato proposto oggi. La vita nominale per un ponte dovrebbe essere come minimo di 100 anni, significa che per tale periodo il progettista dovrebbe prevedere una serie di manutenzioni programmate, tali per cui l’opera, nel corso dei 100 anni, dovrebbe rimanere sostanzialmente identica (come condizioni di sicurezza) rispetto a quando è stata costruita.
E le situazioni al contorno? Intanto cosa succede al resto del mondo? Si pensi com’era la società 100 anni fa. Anzi, si pensi com’era il traffico e le portate ammesse dal codice della strada sui ponti costruiti negli anni ’60 e oggi.
Negli anni ’80 uscì il film “Blade Runner”, che immaginava gli anni 2000 con le auto volanti (anche il film “Ritorno al futuro”); dunque, perché preoccuparsi della manutenzione dei ponti se da lì a pochi decenni non sarebbero serviti. Chiaro, questo è un altro esempio paradossale, ma fa capire come nell’arco di una “vita nominale” non sia possibile fare previsioni ragionevoli.
Non è inoltre possibile che tale responsabilità rimanga in capo al professionista, per così tanto tempo.
Vita nominale, revisioni periodiche e Valutazione di Sicurezza delle opere: la proposta
Troverei invece più ragionevole (e sano) il concetto delle revisioni periodiche: lo fanno le auto, perché non possono farlo le costruzioni? Senza il bollino positivo non si può circolare. Posta una certa Vita nominale (che a questo punto potrebbe anche essere quella delle NTC), ogni tot anni un’opera dovrà essere nuovamente soggetta a una Valutazione di Sicurezza. E a una nuova assunzione di responsabilità, sia da parte del professionista che del proprietario/gestore del bene.
E lo stesso concetto potrebbe tranquillamente essere utilizzato per l’edilizia privata: 40 milioni di italiani vivono in condominio, edifici che per la maggior parte sono stati costruiti tra gli anni ‘40 e gli anni ’70 e sui quali, per il 90%, non sono mai stati realizzati interventi strutturali. A dispetto di quanto creda la maggior parte dei proprietari, una casa non è “per sempre” come un diamante; con il tempo le strutture si stancano, i materiali peggiorano, cambiano le condizioni d’uso, avvengono situazioni impreviste.
Facciamo in modo che ogni tot anni l’agibilità venga a decadere e, per il suo rinnovo, sia necessario svolgere appunto la Valutazione di sicurezza.
Per concludere, per le nuove costruzioni abbiamo la capacità, la conoscenza e la tecnologia per “spingerle” a qualsiasi probabilità di successo (o di insuccesso), possiamo e dobbiamo accelerare l’approccio al BIM, dobbiamo esigere sicurezza e rigore, ecc… Ma dobbiamo essere realisti su qual è il punto di partenza e in quale modo siamo arrivati qui. Essere noi stessi registi e sognatori di un futuro che non potrà essere tutto racchiuso in una norma tecnica.